Le cicatrici d’oro

Le cicatrici d’oro

Si racconta che nel XV secolo lo shōgun – il comandante dell’esercito  giapponese –  Ashikaga Yoshimasa,  avendo rotto la sua tazza da tè preferita, l’abbia inviata in Cina per farla riparare. Non soddisfatto del lavoro eseguito, la affidò ad alcuni artigiani giapponesi i quali, per assecondare il desiderio dello shōgun  e rendere nuovamente utilizzabile la tazza, decisero di unire i frammenti e riempire le crepe con resina laccata e polvere d’oro. La tazza, trasformata in un pezzo unico e  prezioso, venne allora restituita, con la soddisfazione di tutti, alla sua funzione e al suo proprietario.

Sembra sia nata così l’arte giapponese del kintsugi o kintsukuroi: arte del “riparare con l’oro” (da kin = oro, tsugi = toppa, tsukuroi = rammendo). Arte grazie alla quale, ancora oggi, gli oggetti di ceramica ridotti in pezzi non solo non vengono eliminati, ma possono essere resi unici e ancora più preziosi. Unici: poiché le linee di frattura non sono mai identiche tra loro. Preziosi: oltre che per il legame affettivo con il loro proprietario, anche per la lacca, l’argento o l’oro che vengono utilizzati per la riparazione e per il delicato e paziente lavoro che essa richiede.

Da questa arte si può ricavare anche qualche spunto per la nostra vita: quando qualcosa si rompe, anche nella nostra esperienza, non tutto è da eliminare, spesso può nascere qualcosa di nuovo; per questo lavoro di ricostruzione sono necessari, però, “materiali preziosi”, molta cura, una grande perizia e non poca pazienza; mai ci si deve vergognare delle ferite e delle imperfezioni, perché, se riparate con materiali preziosi, consentono di dare forma a una realtà ancora più bella, unica e preziosa, testimone di una storia intensamente vissuta.

Claudio Stercal, Frammenti di Spiritualità, Centro Ambrosiano, Milano 2018